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Gli Anni '90

Gli anni novanta, un decennio che chiude l’ultimo secolo di un millennio che è già lontanissimo, un millennio che visto ora sembra distante anni luce e forse più invecchiato di quanto non sia. Gli anni ’90 della NFL rappresentano una serie di chiusure memorabili, una serie di vicende che faranno letteralmente la storia. Prima su tutti la fine del mercato selvaggio e del “soldo facile”.
La NFL raggiunge il primo vero e proprio CBA (Collective Bargain Agreement), un accordo tra lega, proprietari e associazione dei giocatori che modifica letteralmente le regole di mercato, della gestione dei free agent e, soprattutto, prevede l’inserimento di un tetto salariale rigido e riaggiornabile di anno in anno in base agli incrementi collettivi, ma assolutamente invalicabile dalle squadre. Il sistema collettivo prevede una equa ripartizione delle entrate economiche, con le società più ricche che, in un certo senso, aiutano le più povere a guadagnare qualche dollaro in più. Questa regola porta ad un riequilibrio della lega, limita le spese folli dei presidenti più facoltosi e fa in modo che ogni squadra abbia le stesse identiche (e soprattutto concrete) chances di giocarsi il tutto per tutto. Quando viene firmato il CBA è il 1993, anno in cui Dallas vince il primo di tre Super Bowl che aprono una dinastia intervallata solo dal canto del cigno di una San Francisco presente al grande ballo per la prima volta senza il grande Joe Montana. Ma gli anni ’90 sono anche la fine del dominio della NFC che da tredici stagioni trionfava puntualmente a fine campionato. A porre termine alla tirannia sono i Denver Broncos di John Elway, autori di un magnifico back to back nel ’97 e nel ‘98. Gli anni ’90 sono anche i drammatici e gloriosi anni dei Buffalo Bills, squadra spettacolare e fermata per ben 4 volte di fila a un passo dal titolo. Questa decade vede la nascita di tre nuovi team, i Jacksonville Jaguars e i Carolina Panthers che, a partire dalla stagione 1995, entrano nel mondo del football professionistico, mentre il 1996 segnerà il ritorno del football a Baltimora grazie ai Ravens. Lo stesso anno segnala il gradito ed attesissimo ritorno dei Raiders nella loro città natale, Oakland, dopo tredici stagioni passate a Los Angeles; la città degli angeli nel 1995 raggiunge il triste primato di perdere due squadre in un sol colpo. Il 1994 rimane infatti l’ultima stagione dei Rams in California, la franchigia viene trasferita a Saint Louis dove trionferà proprio nell’ultima tornata del millennio, battendo i Tennessee Titans nel Super Bowl XXXIV. Quei Tennessee Titans che, a loro volta, proprio a inizio decennio hanno sostituito gli storici Houston Oilers dopo un “cambio di residenza”.

L’ultimo decennio apre con un draft che al primo giro vedeva il miglior colpo alla quinta chiamata, dove i San Diego Chargers andavano a scegliere il LB da USC Junior Seau. Pochi mesi prima i 49ers avevano trionfato in un autentico massacro al Super Bowl XXIV, sbarazzandosi dei Denver Broncos e aggiudicandosi il quarto anello della loro storia e proprio in quella stagione Montana avrebbe virtualmente chiuso la propria carriera a Frisco, lasciando spazio a Steve Young dapprima per un infortunio di troppo e successivamente, ed in modo definitivo, per scelte societarie. L’inizio del decennio è all’insegna di Marv Levy e dei suoi spettacolari Buffalo Bills. La squadra guidata in attacco da Jim Kelly, Thurman Thomas, Andre Reed e Steve Tasker gioca un football entusiasmante, veloce, preciso e spesso inarrestabile.

La run ‘n’ shot di Levy, nata dal concetto di una West Coast Offense resa più rapida e micidiale, sfrutta spesso giocate in situazioni di no-huddle e utilizza le aperture di Thomas per dare inizio ai lanci di Kelly, il quale è di frequente posizionato in shotgun (ribattezzata per lui K-gun). Da quella posizione Kelly non dà punti di riferimento sui giochi che vuole applicare, accelera le operazioni di no-huddle e prende tempo per lasciar completare i movimenti dei ricevitori poco prima di lanciare. Buffalo compie una cavalcata eroica e chiude 13-3, miglior record di sempre per la franchigia. Ai playoffs vengono battuti i Miami Dolphins 44-34 e umiliati i LA Raiders 51-3. Dall’altra parte i NY Giants, reduci da una stagione altrettanto valida (sempre 13-3) costruita su una mostruosa difesa ideata nientemeno che da Bill Belichick, fido defensive coordinator di Bill Parcells. Nonostante la grande difesa guidata in primo piano dai linebacker Lawrence Taylor e Pepper Johnson i Giants partono però sfavoriti nel pronostico dal momento che nessuno pensa sia possibile limitare l’attacco di Buffalo. Ma Belichick e Parcells preparano la partita proprio sulla schiena della loro retroguardia, obbligandola a chiudere nel minor tempo possibile i down avversari dando poi all’attacco la possibilità di gestire l’orologio. La tattica funziona, NY tiene palla per quaranta minuti, Thomas corre come un matto ma le tracce di Kelly sono spesso oscurate dai backs avversari. Ottis Anderson (MVP) porta spesso palla per far correre l’orologio e i Giants si trovano avanti 20-19 all’ultimo drive con palla agli avversari. Il sogno di Buffalo muore sul piede di Scott Norwood, kicker che si gioca l’occasione della vita per diventare un eroe sparando fuori un field goal da 47 yards. Non un gioco da ragazzi da quella distanza e con quella pressione, ma quello che ti aspetteresti da un professionista nel momento clou della sua carriera è ben altro. Il kicker è come l’amico del cuore, si vede nel momento del bisogno e, probabilmente, lo sfortunato Norwood non ha molti amici dalle parti di Buffalo.

I Bills continueranno ad infiammare le platee per tutta la prima metà degli anni ’90, chiudendo di nuovo 13-3 nel 1991 e segnando ben 30 punti in più della stagione precedente: 458. L’attacco è il migliore della lega in fatto di yards conquistate, ma è la difesa ad essere diventata maggiormente perforabile. In virtù di questi dati battere i Washington Redskins, probabilmente la più equilibrata franchigia della stagione, nel Super Bowl di Minneapolis il 26 gennaio 1992 è impresa piuttosto ardua. Jim Kelly abbandonerà il campo stravolto da quattro intercetti e una pressione costante nella tasca. La difesa di Washington, insuperabile su corsa, obbligò il QB dei Bills a 58 lanci tentati (record per un Super Bowl), con frequenti forzature totalmente inefficaci. Il controllo della gara di Mark Rypien, quarterback degli ‘Skins e MVP della finale, fu perfetto, con una bassa percentuale di errori e dei drive guidati magistralmente che permisero alla propria squadra di chiudere 17-0 dopo due quarti con due mete su corsa di Gerald Riggs. Un intercetto di Kurt Gouveia a inizio terzo periodo, con Buffalo obbligata a rincorrere un’impresa impossibile, chiuse di fatto la gara: Gouveia riporterà la palla sulle 2 yards degli avversari e, dopo 16 secondi e un solo gioco offensivo, i Bills erano già sotto 24-0. I 10 punti segnati durante il penultimo quarto non spaventarono i Redskins che incrementarono di nuovo il vantaggio con un altro touchdown e due field goal nell’ultima frazione. Solo con già l’anello al dito la squadra capitolina diminuì la pressione e permise a Buffalo di salvare la faccia almeno sul tabellone. Un 37-24 finale che distrusse le ambizioni di Levy e i sogni di rivincita. A posteriori si può affermare con tranquillità, se già non fosse stato possibile farlo all’epoca, che solo il primo grande ballo era davvero alla portata dei Bills, una squadra tenace e roboante in attacco, ma troppo incline al rischio e all’eccesso e con una difesa incredibilmente discontinua. Gli ultimi due Super Bowl giocati, e persi, arrivarono dopo due stagioni leggermente meno brillanti che dimostrarono anzitutto come la squadra non fosse più troppo sicura dei propri mezzi e di come la pressione delle due sconfitte si facesse sentire ad ogni snap. Con meno punti segnati e senza riuscire a rivincere la AFC East, i Bills dovettero stavolta cominciare la postseason da una wild card, unica gara davvero difficile in quella tornata del 1992. Eliminati in overtime gli Houston Oilers i Bills brillarono contro Pittsburgh e Miami per essere poi spazzati via dal campo dai Dallas Cowboys (52-17) nella finalissima di Pasadena. L’anno successivo Buffalo perse solo 4 volte, rivinse il titolo divisionale e sorprese tutti raggiungendo, unica squadra di sempre, il quarto Super Bowl di fila. Una squadra dominante, regina incontrastata della AFC dove solo nella finale di conference del 1994 avrebbe abdicato in onore di San Diego. Ma nemmeno l’ultimo Super Bowl, di nuovo contro i Cowboys, portò fortuna a una delle squadre che rimane tra le più grandi e divertenti di ogni epoca. Dallas s’impose 30-13 e fu chiaro a tutti che la stella del Texas stava brillando di una nuova intensa luce dopo anni di attesa.

Il Team America, la squadra che divide il tifo tra una marea infinita di fans ed altrettanti detrattori. La squadra più vincente degli anni ’90 sono loro: i Dallas Cowboys. L’epoca di Tom Landry era finita nel 1988 dopo ventotto stagioni come primo e unico capo allenatore della franchigia texana. Se le ultime stagioni di Landry non erano state eccelse, l’inizio del nuovo corso con in sella Jimmy Johnson non era stato certo meglio (1-15 nella stagione di esordio). Ma quel record disastroso portò qualche buona nuova con sé: al draft del 1989 Johnson andò a scegliere, con la prima chiamata assoluta, Troy Aikman, potente QB da UCLA. La scelta seguiva di un anno quella di Michael Irvin, WR adatto ad esaltare le qualità di un passer, ed anticipava quella del 1990 di Emmitt Smith, pick numero 17 del primo round e RB autentico, capace di creare un running game devastante ed essere il miglior supporto alla tasca di Aikman. Il trio delle meraviglie era formato e, quando Irvin diventò primo target di Aikman superando in gradimento Kevin Martin, il motore di Dallas cominciò a girare a mille. Nel 1992 Dallas perde solo tre gare di regular season, domina i playoffs battendo Philadelphia ed espugnando nientemeno che il Candlestick Park di San Francisco. Un’onta tremenda per i Niners di Montana, ma la squadra di Johnson lascia tutti a bocca aperta, con un attacco devastante che, oltre al trio delle meraviglie, gioca con un bravissimo tight end come Jay Novacek e una O-line incredibilmente solida e sorretta da Nate Newton e Mark Stepnoski. Ma se l’attacco diverte il mondo intero per la potenza che sprigiona in ogni tipo di gioco, via aria o via terra non importa, la difesa non è da meno e sorprende come, i nomi migliori, siano tutti recenti acquisizioni del draft, elemento che esalta le doti di Johnson e di tutto lo staff al suo seguito. Uomini come i cornerbacks Kevin Smith e Clayton Holmes, il LB Robert Jones, la safety Darren Woodson formeranno l’ossatura della straordinaria difesa di quegli anni formidabili, difesa alla quale (nel 1992) venne aggiunto l’ottimo Charles Hailey, veterano con il compito di leader in un reparto giovanissimo. Quella difesa risultò sesta sui lanci e prima sulle corse in tutta la NFL e l’approdo al Super Bowl riempì la città e gli uomini di coach Johnson di incredibile entusiasmo. Nel Super Bowl XXVII non vi fu scampo per i Buffalo Bills. Aikman fu perfetto, lanciò per 4 TD e si portò a casa il premio di miglior giocatore della partita, un match interminabile per Buffalo che, dopo la meta iniziale di Thomas, si trovò sempre nella condizione di inseguire l’avversario senza successo. L’ultimo quarto fu l’apoteosi e creò quel piccolo “odio” verso una squadra, i Cowboys, che pur con un netto vantaggio passeggiarono senza pietà sui resti dei Bills segnando altri 21 punti. Il 52-17 finale fu solo l’inizio della cavalcata di quei Cowboys, che nella stagione successiva ripeterono l’impresa giocando di nuovo un football di altissimo livello. Difesa e attacco si bilanciavano di nuovo alla perfezione, Emmitt Smith e Michael Irvin da soli mettevano a referto più di 3000 yards in stagione.

Ai playoff i 49ers caddero di nuovo al Championship della NFC e Buffalo fu nuovamente sconfitta al Super Bowl di Atlanta con un 30-13 finale e una sfida in discussione solo per metà gara. Aikman fu messo molto più in difficoltà rispetto alla finale dell’anno prima, venne limitato bene dalla difesa dei Bills, non lanciò TD e subì un intercetto. Ma chiudere un buco, nel muro di quell’attacco, significava aprirne altri. Come per la famosa metafora della coperta troppo corta che a coprirsi la testa si lasciano scoperti i piedi, dal backfield di Dallas uscì Smith per 132 yards e 2 TD. Inarrestabile creò il break definitivo dopo una meta difensiva su fumble riportato in endzone e venne scelto quale MVP della finale. Nel 1994 Dallas confermò tutte le proprie qualità ma, nell’infinita sfida con i San Francisco 49ers, uscì stavolta sconfitta dalla baia colpita da Steve Young e compagni con un 38-28 finale. Solo un anno di pausa per riprendere il discorso e terminarlo, raggiungendo così il quinto Super Bowl, come i Niners avevano fatto l’anno precedente. In finale contro un’altra squadra con quattro anelli al dito, i Pittsburgh Steelers, non fu semplice nonostante l’avvio nel primo quarto che diede ai texani un 10-0 di vantaggio. Gli Steelers, squadra ostica e rocciosa, misero in seria difficoltà l’attacco dei Cowboys che non riuscì quasi mai ad esplodere in tutta la propria potenza come tutti si aspettavano. Pur riuscendo a segnare sempre nei primi tre possessi (meta di Novacek e due field goal di Boniol), Dallas ebbe difficoltà a conquistare campo e a mantenere il gioco, mettendosi così nelle mani di una difesa solida che riuscì a limitare la rimonta degli Steelers. MVP fu proprio un difensore, il cornerback Larry Brown, che con due intercetti diede via ai due drive offensivi vincenti nel secondo tempo, due drive da 14 punti senza i quali la storia sarebbe potuta cambiare. Fu la dodicesima vittoria consecutiva per un team NFC. Dallas interruppe la serie regalandosi il quinto anello di sempre e mandando agli annali una delle squadre più solide, complete e bilanciate di sempre.

Il prima e il dopo Dallas furono caratterizzati dall’avvento di due quarterback straordinari dalle storie completamente diverse ma che vantano entrambi un Super Bowl vinto. Steve Young e Brett Favre. Il primo fu l’erede di Joe Montana a San Francisco, un’eredità pesantissima figlia di una scelta quasi obbligata della società ma mal digerita dal pubblico, almeno inizialmente. Uscito dal college negli anni ’80, Young optò per la neonata USFL invece di approdare da subito nella NFL. Dopo il fallimento della lega il quarterback uscito da Brigham Young tornò in NFL approdando ai Tampa Bay Buccaneers attraverso un supplementary draft.

Nel 1987 i 49ers riuscirono a prelevarlo dalla Florida per concedergli anni e anni di panchina strapagata. Nonostante il talento fosse immenso e Young fosse entrato nella lega come prospetto di altissimo livello, le sue apparizioni per anni si sarebbero contate sulle dita, in qualche finale di partita o in qualche incontro di fine stagione. Nonostante questo, il quarterback nato a Salt Lake City, ebbe la fortuna di giocare qualche snap persino al Super Bowl del 1989, completando due lanci su tre e sentendo un pochino più suo il quarto titolo dell’era Montana. Nel 1992 finalmente la scelta definitiva: il “vecchio” Joe Cool viene mandato a Kansas per anticipare la pensione e Young diventa titolare tra i fischi e i mugugni del pubblico di San Francisco. Fischi che diventano, come spesso capita in queste situazioni, applausi quasi immediati. Nonostante gli anni da ricco spettatore, Young si muove ancora agevolmente dietro al proprio centro e gioca un football aereo semplicemente stupendo, incisivo, pulito. Il talento non lo ha abbandonato e la prima delle sue tre stagioni da 16 gare si chiude con 3465 yards, 25 TD e solo 7 intercetti. I Cowboys eliminano Young dai playoffs, storia che si ripete l’anno successivo, quando il QB dei Niners supera la barriera delle 4000 yards ma, di nuovo, si ferma contro Dallas. Il 1994 è il suo anno capolavoro: 3969 yards lanciate, 35 TD affiancato dal fedelissimo Jerry Rice che porta con sé già tre anelli vinti col predecessore di Young. La coppia viaggia sugli stessi numeri dall’addio di Montana senza alcun tentennamento. Dei 35 TD lanciati da Young nel ’94, 13 sono completati da “World”. Al termine di una strepitosa cavalcata conclusa col record di 13-3, i 49ers allenati da George Seifert giungono all’ennesimo faccia a faccia con i Cowboys, riuscendo stavolta a vincere e staccare il biglietto per il Super Bowl.

Prima squadra ad aggiudicarsi per la quinta volta un Super Bowl, i 49ers vivono una serata magica in quel di Miami, guidati dal MVP della serata, uno splendido Steve Young. Il QB venuto dalla terra dei mormoni compie un’impresa eroica, probabilmente la miglior partita di sempre per un quarterback in una finalissima. Young completa 325 yards grazie ad un 24/36, ma soprattutto stabilisce il record di 6 TD lanciati in un Super Bowl. E’ l’apoteosi, i Niners entrano nella storia con un perentorio 49 a 26 che annichilisce i poveri San Diego Chargers, giunti sino in fondo eliminando i Pittsburgh Steelers di Bill Cowher ma senza la giusta esperienza per confronti di questo tipo e contro questo genere di avversari.

Steve Young giocherà la sua ultima stagione nel 1999, stesso anno in cui un altro quarterback da leggenda appenderà l’elmetto al chiodo: Dan Marino, il quale molla dopo una vita passata a Miami a battere record senza riuscire a vincere un solo anello e giocando un solo Super Bowl. Dan the man si ritira come unico uomo di sempre ad aver passato le 60000 yards in carriera (61361) record ben lontano dall’essere a rischio di eventuali sorpassi, e con l’impresa di essere stato per ben cinque volte top passer della stagione per numero di yards con l’invidiabile primato di 5084 ancora imbattuto. Solo nel 2004, Peyton Manning, gli strapperà uno dei record più prestigiosi, quello di TD passes, arrivando a 49, uno in più di Marino. Ma nei lanci totali, l’ex QB dei Dolphins dorme ancora sonni abbastanza tranquilli fermo a 420. Sia Marino che Young verranno introdotti, inevitabilmente alla Hall Of Fame.

Dallas torna immediatamente sul trono l’anno successivo, ma è nel 1996 che un nuovo QB comincia a far parlare di sé in modo del tutto meritato. Brett Favre, scelto al secondo giro dagli Atlanta Falcons e rilasciato l’anno seguente per approdare in Wisconsin, alla corte dei Green Bay Packers. Favre diventa subito titolare e mette a referto un primo record piuttosto particolare: il primo lancio completato in carriera è infatti per sé stesso, un Favre to Favre che fa sorridere gli amanti delle curiosità ed è come un segnale di eccellenza che ricopre questo giovane cresciuto nel Mississippi e dal cognome con la pronuncia atipica ( Farv ). Il numero 4 delle Cheesehead mette subito in evidenza un braccio potente e preciso, un gioco figlio della tradizione di assi che in quegli anni stanno smettendo di giocare, come John Elway e il sopraccitato Steve Young. Il suo gioco è sì un po’ grezzo e forzato, ma Favre adora stupire, cercare sempre il big play, ferire gli avversari con lanci sul profondo che inevitabilmente portano con loro il rischio di tanti intercetti, ma anche la forza di abbattere gli avversari con poche giocate. Il suo arrivo a Green Bay coincide con l’assunzione di Mike Holmgren come capo allenatore e, tra i due, nasce immediatamente un’intesa perfetta che riporta i Packs a una lunga serie di stagioni positive dopo anni e anni di oblio.

Il merito dell’impresa va riconosciuta anche al general manager Ron Wolf, ingaggiato nel 1992 e pronto a ricostruire il sogno dei Packers. Se il leader indiscusso dell’attacco diventerà per anni quel quarterback respinto da Atlanta dopo essere uscito da un draft piuttosto povero di talenti, quello della difesa diventerà immediatamente Reggie White, the Minister of defense, ingaggiato nel 1993 dopo otto stagioni a Philadelphia e assoluto dominatore della linea difensiva. Favre è da subito idolo locale, non scende (e non scenderà) mai sotto le 3000 yards lanciate, permettendosi qualche “scappatella” oltre le 4000 e, nel 1996, porta i Packers al Super Bowl, apparizione che mancava dai tempi di Vince Lombardi. L’attacco orchestrato da Favre conta su personaggi come Dorsey Levens, 5° round del draft 1994 abituato in avvio di carriera a dividere le portate con Edgar Bennett, arrivato via draft l’anno di Favre. Ma anche Antonio Freeman, fortissimo WR draftato da Wolf nel ‘95, Mark Chmura e Keith Jackson, coppia di TE piuttosto solida. La stagione si chiude 13-3 per i gialloverdi, e si chiude con l’eroico Super Bowl di New Orleans dopo che nei playoff San Francisco e Carolina Panthers si erano dovuti arrendere allo strapotere degli uomini di Holmgren. Un attacco piuttosto giovane, dotato di una buona linea offensiva e con una difesa capace di fare il proprio mestiere e in grado di mettere in fila chiunque nei quattro mesi di regular season. E Favre, ormai idolo indiscusso, giocatore fantastico, dotato di un tocco eccelso e di grande potenza e capace di mettere, al solo secondo gioco del suo primo Super Bowl in carriera, un pallone nelle mani di Andre Rison per un touchdown da 54 yards. Atleta di indubbie qualità, ottimo nelle letture e nell’improvvisazione sotto pressione, Favre può aggredire le difese avversarie a tutto campo e il primo anello sembra solo l’inizio di una carriera di fantastiche vittorie. Mattatore del 35-21 inflitto ai New England Patriots di Bill Parcells e dell’altro talento in fatto di QB, Drew Bledsoe, è però Desmond Howard, wide receiver, che si guadagna la prima pagina grazie a giochi come kick/punt returner negli special team. I Patriots cercarono di rimanere in gioco per tutta la gara, costretti ad inseguire da subito in quello che era il secondo grande appuntamento con la storia dopo la finale giocata (e persa) nel 1985. Bledsoe guidò i suoi al sorpasso nel primo quarto, ma i big plays dell’attacco dei Packers erano sempre dietro l’angolo e una meta via lancio completata da Freeman valse ben 81 yards e il ritorno in avanti del team del Wisconsin. La difesa guidata da Reggie White stordì più volte Bledsoe (3 sack per White) che fu intercettato quattro volte ma, soprattutto, fu decisamente meno incisivo del diretto avversario, completando 11 lanci in più ma guadagnando solo 7 yards di vantaggio rispetto a Favre. Il break cominciato con le 81 yards di Freeman poteva chiudere la gara, ma Curtis Martin tentò di riaprirla a poco meno di tre minuti dalla fine del terzo quarto segnando su corsa. Il kick off seguente diede la possibilità a Howard di realizzare un TD da 99 yards su kick off return, stabilire un record e spazzare via le velleità avversarie anche grazie alla trasformazione da due punti realizzata sull’asse Favre-Chmura.

Il finale del decennio è semplicemente un film pieno di effetti speciali che comincia con John Elway e si chiude con the greatest show on turf. I Denver Broncos guidati dal coach Mike Shanahan sono sul finire della carriera del loro leader indiscusso, uomo simbolo per un’epoca, una generazione e certamente il più grande talento mai passato dal Colorado. Con lui Denver si è già giocata tre Super Bowl uscendo sempre sconfitta, ma nel 1997 l’occasione torna a presentarsi. Con un nuovo runningback fenomenale come Terrell Davis e Rod Smith a fare da primo ricevitore, il coaching staff costruisce finalmente un gioco degno del proprio quarterback, rinforzando la offensive line per dare tutto il supporto che serve per raggiungere la vittoria. Elway e compagni compiono l’impresa chiudendo 12-4 la regular season e liberandosi agevolmente di Jacksonville (42-17) nella wild card prima di soffrire e vincere anche contro Kansas City e Pittsburgh. Buona la quarta, verrebbe da dire, con un Elway che mette insieme alcune giocate su corsa fondamentali per vincere il titolo proprio contro Brett Favre, immediatamente spodestato dal trono della NFL insieme ai suoi Packers. La vittoria spinge Elway a ritrattare sul proprio ritiro e a giocarsi un stagione, a 38 anni, come detentore del titolo. La scelta è talmente azzeccata che Denver infila un back-to-back che fa gridare al miracolo, con una stagione chiusa 14-2 con due sconfitte di fila la prima delle quali giunta dopo 13 vittorie. La maggior tranquillità, il peso dell’eterna sconfitta finalmente scacciato, danno ai Broncos e soprattutto a Elway la forza di rimanere ai vertici ancora una volta e di giungere al Super Bowl dopo aver asfaltato Miami (28-3) e NY Jets (23-10). La finalissima coi sorprendenti Falcons è un massacro, Elway lancia 336 yards e un TD, coprendo la endzone anche su corsa e venendo eletto MVP. La sua carriera termina da trionfatore e, senza di lui, i Broncos attraversano subito un momento di difficoltà chiudendo 6-10 la stagione ’99. La doppietta di John Elway chiude il dominio NFC che nella Lega pro del football americano durava da ben tredici stagioni.

L’ultimo campionato degli anni novanta resta invece ottimamente fotografato nel tuffo di Kevin Dyson, wide receiver dei Tennessee Titans bloccato a una yard dal touchdown del pareggio mentre l’orologio termina la propria corsa. L’azione dichiara la fine del primo Super Bowl disputato nel primo anno solare del nuovo millennio anche se riferito al 1999 e vede come vincitori i St. Louis Rams, capaci in questa stagione in quella successiva di mettere in piedi un attacco semplicemente straordinario per numeri messi a referto e spettacolo buttato in campo. The greatest show on turf, così verrà ribattezzato il gioco offensivo dei Rams, uno dei migliori di sempre nella storia di questo gioco, certamente il più incisivo e spettacolare al quale abbiamo assistito in questi ultimi tre lustri di football. Kurt Warner (MVP del Super Bowl), Marshall Faulk (1381 yards corse), Isac Bruce (1165 yards ricevute) e Torry Holt (788) sono i quattro punti cardinali di una formazione in grado di chiudere come miglior squadra per yards totali guadagnate, lanciate, per media yard su lancio e per TD segnati su passaggio (42). Sono l’ossatura di una formazione che chiuderà 13-3 la regular season prima di battere all’interno del proprio dome i Minnesota Vikings 49-37 e i Tampa Bay Buccaneers allenati da Tony Dungy per 11-6. Il Super Bowl di Atlanta li vede opposti ai Tennessee Titans del grande Steve McNair dopo che questi sono usciti come secondi della AFC Central dietro a Jacksonville con il record di 13-3. I Titans si prendono la rivincita sui rivali di division battendo i Jaguars 33-14 sul loro campo nel Championship di AFC dopo aver eliminato Buffalo e Indianapolis, ma devono cedere l’onore delle armi ai Rams nella finalissima dominata da una St. Louis comunque incapace di chiudere la partita. Un primo tempo di niente per i Titans si trasforma in una ripresa all’insegna del recupero solo sfiorato, mentre Kurt Warner sopperisce ai problemi di corsa della squadra lanciando 414 yards e due TD, confermandosi miglior giocatore della partita e regalando ai suoi il Vince Lombardi Trophy; un finale gloriosi per un quarterback messo da parte da una Lega che alla fine si è arresa al destino ed ai suoi Rams.

L’ultimo anno del decennio non segna però solo il trionfo dei Rams, ma anche la precoce fine di uno dei più grandi campioni di sempre. All’età di 45 anni muore infatti Walter Payton, probabilmente il più completo e concreto runningback di ogni epoca, campione del mondo nel 1985, considerato un esempio come uomo prima ancora che come giocatore ed ospitato nella Hall of Fame dal 1993. Payton, due volte MVP della lega (1977 e 1985) lascia un vuoto per i tifosi di Chicago e del football in generale mentre, tra i Bears, aspettano ancora un erede in grado di riportarli al titolo.

Decades | by Alessandro Santini | 25/02/07

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