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Brett Favre

Cambiano i tempi, ed assieme ad essi, i modi di interpretare gli sport professionistici americani.

Laddove un tempo il concetto di icona era un una simbologia fissa nelle tradizioni di tutte le squadre, anche quelle meno importanti, dall’avvento della free agency in poi il tutto venne dimenticato a causa dell’avvicendarsi costante di equilibri e di protagonisti, di confuse concentrazioni di talenti mirate a costruire subito per arrivare ad un titolo e quindi smantellare il tutto una volta ottenuto l’obbiettivo, nonchè il potere della scelta, passato dalla parte del giocatore piuttosto che del dirigente, attraverso il quale chi è grande ma non ha mai vinto niente può permettersi persino di accasarsi dove meglio gli aggrada, o meglio con chi gli offre maggiori possibilità di vincere una cosa mai avvicinata in carriera.

Quella che ieri era una regola è oggi diventata un’eccezione, e viceversa.

Escludendo il solo ultimo anno di carriera, questo non è mai stato tale il modo di ragionare di Brett Lorenzo Favre, indissolubilmente legato ai Green Bay Packers ed al suo mitico numero 4 da tante gioie ed altrettanti dolori, tra felicità e mugugni, tra Super Bowl vinti, persi di poco o mai raggiunti, tra l’incertezza se lasciar perdere tutto o continuare a proprio rischio e pericolo un’avventura che il suo picco più alto l’aveva già raggiunto molto tempo prima.
In questo saliscendi di fatti e stati d’animo, la natura che ha contraddistinto prima l’uomo, quindi il giocatore, è rimasta immutata.

Solo così si poteva spiegare, in età dove i normali giocatori di football sono in pensione da un pò, la capacità di contagiare ogni compagno con l’entusiasmo di un esordiente, di eccitarsi come un bambino per un touchdown, di arrabbiarsi con chi non giocava al pieno delle sue potenzialità, di cercare in ogni momento la vittoria come risultato finale, anche a costo di pagare di persona i suoi errori di cocciutaggine.
Lo spirito competitivo che ha pervaso Favre lo ha sempre spinto a desiderare ardentemente il massimo risultato: se il football fosse dipeso da lui, forse non sarebbero mai esistiti punts e field goals.

Nulla di tutto questo era noto al mondo del football, specialmente quel 21 aprile del 1991, mentre il giovane Brett Favre era da qualche parte, in attesa di sentire il proprio nome chiamato da una squadra professionistica.

Promettente atleta cresciuto a Kiln, Mississippi, Favre era stato ritenuto degno di una borsa di studio solamente da un’università, la locale Southern Mississippi, il cui allenatore scritturò il ragazzo solamente per utilizzarlo come defensive back.
Fu Brett ad insistere nel voler dimostrare di saper giocare nel ruolo di quarterback, divenendone in seguito il settimo di squadra in ordine di importanza; alla terza settimana di gioco della sua stagione da freshman, ad ogni modo, si era già impadronito dei gradi di starter.
L’esperienza al college diede qualche esemplificazione della determinazione del personaggio, in special modo di conseguenza all’incidente in macchina che rischiò di costargli vita e carriera appena prima del campionato da senior, quando nell’agosto del 1990 gli venne asportata una parte di intestino e lui guidò comunque i Golden Eagles ad una stagione di 8 vittorie e 3 sconfitte, terminando il quadriennio quale possessore di 5 diversi records di ateneo.

Era iniziato da poco il secondo giro, in quell’aprile seguente, quando la nevrotica impazienza di chi attende notizie sul proprio futuro si trasformò in istantaneo sollievo: gli Atlanta Falcons, i quali cercavano un backup per Chris Miller, avevano appena deciso di investire su Favre la 33ma scelta assoluta.
A Jerry Glanville, pirotecnico e bizzarro coach in carica all’epoca, Brett non piacque affatto, ed assicurandosi che più persone possibili sapessero del suo pensiero, comunicò che lo avrebbe fatto giocare solamente in caso di un disastro di epiche proporzioni.
Di fatto il giovane quarterback mise piede in campo per la prima volta all’RFK Stadium di Washington, dinanzi ai futuri vincitori del Super Bowl, ed il suo primo passaggio tentato venne intercettato e riportato in endzone. Lanciò solamente altri tre passaggi con quell’uniforme addosso, e non ne completò nessuno.

Ad Atlanta pensarono di essere caduti in errore, ma finirono per commetterne uno di più grosso ancora quando, in cambio di una prima scelta del 1992, acconsentirono nello spedire Favre ai Green Bay Packers: stava per iniziare un rapporto destinato a divenire leggenda, ma nessuno ancora ne era a conoscenza. Di quella scelta non solo si sarebbero pentiti i Falcons, ma soprattutto chi, come Raiders e Seahawks, aveva preferito puntare su bufale quali Dan McGwire e Todd Marinovich, ambedue chiamati prima di quel ragazzo del Mississippi…

Probabilmente, nemmeno i Packers seppero riconoscere con immediatezza l’enormità dell’affare che conclusero quel giorno, o meglio, furono consci di essersi assicurati un giocatore su cui costruire il futuro, ma se qualcuno avesse detto loro che avevano appena portato in città la cosa più vicina a Bart Starr di sempre, probabilmente una grassa risata se la sarebbero fatta pure loro, considerando pure il fatto che dopo la prima visita medica effettuata nel Wisconsin, gli venne diagnosticata una forma di necrosi vascolare, una malattia degenerativa dei tendini delle ossa.

Brett Favre arrivò ai Packers in un contesto storico particolare, molto, troppo lontano dalle innumerevoli vittorie raccolte nell’era di Vince Lombardi, e la franchigia già da molti anni non godeva più di quello status vincente che era divenuto un suo scontato sinonimo nell’epoca d’oro.
Favre fu il ricevitore del suo primo passaggio completato, che gli tornò tra le braccia dopo essere rimbalzato su un avversario per un guadagno di -7 yards: quel giorno il suo nuovo coach, Mike Holmgren, l’aveva messo in campo al posto di Don Majkowski in una partita che gli avversari di Tampa Bay vinsero per 31-3, nella quale lanciò solamente per 106 yards.
L’infortunio patito da Majkowski nella settimana successiva contro i Bengals fu l’episodio chiave per il lancio della carriera del giovane, che commise quattro fumbles e si fece fischiare durante quasi tutta la sua permanenza in campo, salvo lanciare il touchdown pass decisivo per la vittoria dei Packers.

La leggenda stava muovendo i primi passi di un cammino proseguito con l’ottenimento di una striscia di sei vittorie consecutive, la più lunga della squadra degli ultimi 27 anni, e con un rating di 144.6 nel successo contro gli Steelers: Green Bay finì con un record attivo, 9-7, e perse il treno dei playoffs solamente all’ultima partita, ma l’appuntamento fu semplicemente rimandato di una stagione, quella 1993, dove Favre condusse i Packers alla prima qualificazione di postseason dal 1982.
Brett aveva inoltre trovato un grande amico tra i suoi ricevitori: Sterling Sharpe, purtroppo ritiratosi anzitempo per problemi seri al collo, diventò il suo bersaglio principale, e le giocate dei due cominciarono presto a dare spettacolo, trovando il loro culmine con la bomba di 40 yards con cui vinsero, sostanzialmente allo scadere, la Wild Card contro i Lions nel gennaio del ‘94.

I playoffs, un tempo, erano un obbiettivo minimo per i gloriosi Green Bay Packers, che sotto la guida del loro nuovo quarterback ricominciarono a respirare un’atmosfera finalmente vincente; Brett aveva appena dato inizio ad una striscia di partenze da titolare terminata solamente con il suo ritiro, la più longeva di sempre per un quarterback, dando vita ad epocali ed indimenticabili battaglie all’interno della competitiva NFC contro San Francisco e Dallas in particolar modo a metà degli anni novanta, misurandosi con pari ruolo del calibro di Troy Aikman e Steve Young. E se dapprima dovette sopportare dispiaceri iniziali, dati dalle eliminazioni dai playoffs inferte dalle rivali appena citate, in seguito imparò a valorizzare la consapevolezza che la squadra stava imparando dai propri errori d’inesperienza e contemporaneamente cresceva nel verso giusto, condotta da un ragazzo giovane ma maturo, di forte personalità e di grande agonismo.

Fu presto evidente che Brett Favre possedeva il bagaglio tecnico e psicologico per poter puntare in alto, considerazione testimoniata dal memorabile triennio vissuto tra le stagioni 1995 e 1997, che lo videro come vincitore di tre premi consecutivi di MVP (l’ultimo assegnatogli assieme a Barry Sanders), impresa mai riuscita ad alcun giocatore NFL.
Da quel momento si cominciò a parlare di lui come il miglior quarterback in circolazione.

Così, le sconfitte in tre anni consecutivi contro i Cowboys, ostacolo oramai divenuto insuperabile che aveva costretto Green Bay ad accontentarsi della presenza al Championship del Gennaio del 1996, erano diventate lezioni su cui costruire, e le fantastiche stagioni regolari di Favre, culminate con le 4.413 yards di career high della campagna ’95 e da quattro campionati consecutivi da oltre 30 passaggi da touchdown a fronte di meno di 15 intercetti, si trasformarono in partecipazioni di postseason sempre più lunghe. Un ragazzo proveniente dal caldo sud degli Stati Uniti, si trasformava in un’autentica macchina da touchdowns man mano che le temperature scendevano.

“Un giorno vi assicuro che sconfiggerò questa cosa”, disse nella offseason che portava alla stagione 1996, “vincerò il Super Bowl. E alle persone che non mi vogliono credere dico solamente di scommettere pure contro di me”.

Non solo parole, a giudicare dai fatti.

Quel campionato fu straordinario sin dall’inizio, in quanto i Packers vinsero 5 delle prime 6 partite con uno scarto medio di oltre 30 punti, salvo un’interruzione data da due sconfitte consecutive, una delle quali ancora contro Dallas che confermò la pessima tradizione di Favre al Texas Stadium, solamente per riprendere a vincere con una dominanza costante. Il 13-3 conclusivo fu il miglior bilancio addirittura dal 1962, Brett era inarrestabile, la squadra segnò a volontà sospinta dai 39 passaggi vincenti del suo leader, statistica in seguito mai più raggiunta. Fu una delle edizioni più forti di sempre del team del Wisconsin, che annoverava a roster gente del calibro di Reggie White, Leroy Butler, Edgar Bennett e tantissimi altri ancora.

I playoffs furono una cavalcata fantastica, che Brett condusse con un rating di 107.5, 5 mete ed un solo intercetto, guidando i Packers ad una vittoria per 35-14 contro i 49ers in un campo in pessime condizioni, ed un 30-13 contro la sorpresa Panthers, il quale regalò l’accesso al Super Bowl XXXI.
Davanti agli occhi del Superdome di New Orleans, non molto distante da casa sua, Favre distrusse la difesa dei New England Patriots mandando in meta Andre Rison con un gioco di 40 yards al primo tentativo di lancio, successivamente confezionò una giocata record (al tempo) per la manifestazione, trovando Antonio Freeman per una segnatura di 81 yards, e terminò il lavoro con una meta personale su corsa.

Poco gli importava che il titolo di MVP fosse andato a Desmond Howard, responsabile di un elettrizzante touchdown su ritorno, in quanto i Packers vinsero per 35-21, lui lanciò 14 completi su 27 per 246 yards senza intercetti, e mantenne la solenne promessa che aveva virtualmente fatto ad ogni singolo tifoso dei Green Bay Packers: l’aura vincente dell’epoca Lombardi era tornata dopo 29 anni, e Brett riportò nel Wisconsin un trofeo che portava il nome della persona più significativa della storia della franchigia.
Solamente un John Elway determinato a vincere il suo primo titolo gli impedì di bissare l’impresa, la quale non si concretizzò nonostante un’altra grandissima stagione, conclusa con il secondo 13-3 consecutivo, con vittorie contro Tampa Bay e San Francisco nei playoffs, e 256 yards con 3 mete ed un intercetto nella sconfitta per 31-24 del Super Bowl XXXII, propinata ai Packers dai Denver Broncos.

Quando sembrava che Favre ed i Packers potessero diventare contendenti fissi per la finalissima, cominciò un inesorabile declino che vide il team escluso dalla postseason per la prima volta dopo cinque qualificazioni consecutive, e le prestazioni del quarterback calarono drasticamente.
Verso la fine degli anni ’90 ed in coincidenza dell’inizio del nuovo secolo le apparizioni ai playoffs di Brett vennero ricordate più per aspetti piuttosto negativi. Nel 2001 si fece intercettare per 6 volte dalla difesa dei Rams, che segnò nell’occasione 21 punti, nel 2002 commise tre turnovers fondamentali contro i Falcons finendo per determinare la prima sconfitta di sempre dei Packers al Lambeau Field in una gara di playoffs, nel 2003 un suo intercetto in overtime determinò il field goal vincente con cui gli Eagles si qualificarono per il Championship, infine nel 2004 lanciò 4 intercetti contro i Vikings costando al suo team un’altra sconfitta di postseason tra le mura di casa.
Quando poi Green Bay terminò a quota 4-12 nella stagione 2005, campionato di transizione e ricostruzione del roster, sembrava che l’avventura del numero 4 fosse arrivata al capolinea.

Brett Favre aveva sempre definito Green Bay come il luogo ideale dove poter trascorrere una carriera da giocatore professionista, un posto perfetto per chi come lui faceva della tranquillità il cardine della propria esistenza, senza quelle eccessive pressioni e distrazioni che metropoli dal mercato più allettante possono offrire come fastidiosa interferenza.
Questa sua semplicità lo rese idolo della Frozen Tundra, il nomignolo della Green Bay dei mesi più freddi, la cui comunità riusciva ad identificarsi in lui, persona sensibile, combattiva e genuina. Non era raro, un tempo, trovarlo in qualche pub intento ad offrire una meritata e gigantesca birra a ciascuno dei componenti della sua linea offensiva in segno di gratitudine, un gesto molto semplice, che per lui rappresentava uno maggiori divertimenti per passare il tempo libero.
La sua amicizia fraterna con il centro Frank Winters ed il tight end Mark Chmura fu determinare per il superamento dei momenti difficili.

Green Bay, difatti, l’aveva supportato e compreso, quando da eroe apparentemente invincibile aveva scoperto quanto fragile e provvisorio fosse il mondo del successo: furono in molti, primo di tutti coach Mike Holmgren, a stargli accanto quando decise di ammettere davanti alla stampa di essere diventato dipendente da painkillers, dannati medicinali che acquietano il dolore di un infortunio e consentono di giocare ugualmente, ma le cui conseguenze non si conoscono mai fino in fondo e possono costare la vita.

La volontà di essere un bravo marito e padre lo fece pure smettere di bere: se così non avesse fatto, d’altra parte, non avrebbe mai più rivisto la sua figlia maggiore.
Ecco che Brett passò agli occhi del pubblico come una persona vera, vulnerabile; il giocatore capace di sormontare ogni ostacolo che campeggiava negli ideali dei fans aveva rivelato a tutti il suo lato più oscuro del suo animo, fortificato in seguito dalla malattia della moglie DeAnna, che sconfisse un cancro al seno, e dalla scomparsa prematura del cognato, altro episodio che lo segnò in profondità ma che gli diede altresì modo di reagire a tutte queste avversità con tutte le forze.

Il forte attaccamento della gente nei suoi confronti lo fece sentire in dovere di scendere in campo in quel tristemente famoso 22 dicembre 2003, in un Monday Night contro gli Oakland Raiders, poche ore dopo la morte del padre, colpito da un tragico infarto.
In una delle singole prestazioni più memorabili di sempre, Brett, dopo un commovente discorso fatto ai compagni nel pre-gara, giocò la partita della vita lanciando 4 passaggi da touchdown nel solo primo tempo, chiudendo con 399 yards totali ed un sonante 41-7 in favore dei Green Bay Packers, e venne applaudito a scena aperta persino dagli occupanti del Black Hole.

“Papà avrebbe voluto così”, disse a fine gara, prima di partire per Pass Christian e dare l’estremo saluto al genitore.

I Packers del 2007 non sarebbero dovuti figurare tra i protagonisti della NFC, non dopo le ultime brutte figure fatte ai playoffs, dopo aver rotto la magica imbattibilità del Lambeau Field nella postseason, dopo i mugugni di un eroe troppo indeciso sul suo futuro, deluso dalla presunta mancanza di volontà da parte della franchigia di affiancargli il giusto talento per tentare l’ultimo assalto.

Ma nessun ostacolo fu così grande da impedire a Favre di giocare un altro campionato da leggenda, contraddistinto da una pazza corsa di 13 vittorie e 3 sconfitte e dall’indimenticabile scena consumatasi al Metrodome di Minneapolis, il luogo che gli regalò una soddisfazione meritatissima, quella di superare il record di ogni epoca di passaggi da touchdown lanciati in carriera detenuto da Dan Marino.
Dopo 16 anni di partite, Brett Favre era ancora capace di gesti di pura emozione, di entusiasmo incontenibile, sentimenti che d’istinto lo avevano fatto correre verso Greg Jennings, l’autore di quella storica ricezione, che venne portato in trionfo dal suo quarterback, il quale lo teneva sulle spalle con la forza e la gioia di un ragazzino, seppure i suoi capelli si fossero inevitabilmente tinti di grigio.
Quel bel ritratto con Jennings in groppa fu l’ideale ringraziamento per ogni compagno che negli anni gli aveva reso possibile la costruzione e la realizzazione finale di quel sogno.

In braccio a Favre, c’erano immaginariamente anche Robert Brooks, Sterling Sharpe, e tutti coloro che avevano trasformato un suo lancio in altri sei punti per i Packers.

Sarebbe stato bello vederlo alzare il Vince Lombardi Trophy per un’ultima volta, e poi dire addio a tutti per sempre, sarebbe stato un finale da film strappalacrime, la cui pellicola è andata disgraziatamente bruciata su quel passaggio forzato nell’overtime del Championship contro i Giants, errore che gli ha precluso l’ultima, grande, partecipazione al Super Bowl proprio davanti ai suoi tifosi.
E sarebbe stato bello vederlo terminare la sua carriera in maglia Packers, evento che la sua permanente ed a tratti irritante indecisione non rese mai possibile, quando mesi dopo una commovente conferenza stampa d’addio, decise di tornare sui propri passi, vedendosi giustificatamente sbattere la porta in faccia da una squadra che aveva voltato pagina, in procinto di lanciare il suo successore, Aaron Rodgers.
Finì per forzare una trade che lo portò ai New York Jets, con i quali giocò un’ottima prima parte di campionato facendo persino sognare un Super Bowl tra le due compagini della Grande Mela, solo per crollare nel disastro collettivo che portò la squadra ad un prosieguo del cammino disastroso, dove non arrivarono nemmeno quei playoffs che parevano quasi scontati.

Gli anni gli avevano presentato il conto sottoforma di una notevole quantità di acciacchi, che ne avevano inesorabilmente minato l’efficienza e la potenza del braccio. Anche l’uomo di ferro, resistito per 18 lunghissimi anni ai duri colpi dei difensori avversari senza mai saltare una partita, era stato costretto a dire basta, stavolta definitivamente. Stop ai ripensamenti. Stop ai lunghi mesi di indecisione. Stop al football giocato.

Al di là dei comportamenti più o meno corretti che ha tenuto nei confronti dei Packers negli ultimi anni di carriera, il suo posto nella storia è inderogabilmente a fianco di Vince Lombardi, Bart Starr e tutti quei giocatori che hanno reso leggendaria la Title Town, la piccola cittadina di Green Bay, Wisconsin.
Presto, apparterrà di diritto alla Hall Of Fame della NFL.

Il suo posto fuori dal football, invece, è lì da qualche parte nell’America rurale, a godersi la sua casa, la sua famiglia, e tutte le cose belle e semplici che la vita sa regalare.

Un giusto premio, dopo una carriera da tough guy.

NFL Records
Brett Favre è al numero uno nella storia dei records NFL nelle seguenti categorie statistiche:

Passaggi da touchdown: 464
Passaggi tentati: 9.280
Passaggi completati: 5.720
Passaggi intercettati: 310
Yards su passaggio: 65.127
Gare con 3 o più passaggi da touchdown: 65
Vittorie ottenute in regular season: 162
Partite consecutive giocate da titolare: 269 (291 compresi i playoffs)

Legends | by Dave Lavarra | 14/03/09

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