Menu:

Ricerca articolo


Walter Payton: Sweetness

La storia del Walter Payton giocatore comincia in modo semplice e finisce in maniera trionfale, quella storia che, tra queste righe, è nostro dovere provare a raccontare. E’ sempre difficile trattare con le leggende, con quei nomi che hanno fatto del football forse lo sport più ricco di eroi nel mondo, ma sarebbe ancora più duro parlare del Payton uomo; non solo perché non avendolo conosciuto non potrei che raccontare vicende riportate da altri, ma anche perché il carattere che ha portato questo giocatore a farsi ribattezzare Sweetness ha lasciato una traccia indelebile in ogni persona che abbia avuto a che fare con lui.
E non è più facile parlare del Payton giocatore, se non citando numeri e imprese, ma forse mai come in questo caso è necessario cercare reperti filmati per capire quanto immenso sia stato questo runningback. Walter Payton non è finito sui giornali per droga, risse, bella vita, gossip vari, ci è finito solo per le vittorie e i record e questo, nero su bianco, non può esaltare come un filmato per quanto si possa provare a costruire e romanzare corsa dopo corsa la sua carriera. Servirebbe un’enciclopedia allora, dove descrivere ogni singolo movimento, il modo in cui correva ondeggiando e salvaguardando le proprie ginocchia da contatti pericolosi, librando nell’aria mentre nessuno sembrava in grado di arrestarne le corsa.

La carriera di Payton è stata sempre un toccare picchi di eccellenza senza sbavature che lo circondassero nel suo mondo di uomo comune, fuori dal campo, tanto da spingerlo a ricordare ai giornalisti che lo intervistavano nel momento in cui ufficializzò l’addio al football, di non voler essere ricordato solo per quanto fatto sul campo, per le yards corse e per le mete segnate; quello, per Payton, sarebbe stato un fallimento. Per lui era importante essere ricordato anche come uomo, come padre, come marito: come Sweetness insomma.
Insomma, questo è il pezzo più difficile che vi potrebbe mai capitare di scrivere, per lavoro, per passione, per hobby.

Di Walter Jerry Payton, questo il suo nome completo, ci interessa quindi sapere di quanto facesse sul campo e, per i pochi che ancora non lo avessero mai visto all’azione, il consiglio è ovvio ed è quello di procurarsi dei filmati per rivedere all’opera quello che con ogni probabilità è stato il più grande runningback di tutti i tempi nella Nfl, certamente il più completo. Di questo Payton conosciamo tutto, da quel draft
del 1975 in cui i Chicago Bears se lo portarono a casa con la quarta scelta assoluta, chiamando il nome di quell’ex boy-scout nato dalla relazione tra papà Peter e mamma Alyne a Columbia, Mississippi, in stagioni in cui nascere neri in quei posti rendeva tutto più difficile, a volte impossibile. Il piccolo Walter è un ragazzino tranquillo, vicino alla chiesa del quartiere e impegnato in attività ad essa legate, dalla banda al coro, studente onesto e personalità mai sopra le righe. Il suo nome comincia però a circolare in città quando al penultimo anno di liceo scopre la palla ovale e comincia a giocare runningback per la Jefferson High School. Niente male. Il giovane Payton ha talento, fisico, velocità e atletismo.

Il fatto che la sua scuola venga incorporato ad un liceo per soli bianchi (in virtù delle leggi che negli anni 60 scossero il sud degli Stati Uniti per promuovere l’integrazione razziale) non ne cambia i numeri e la dedizione mentale che il ragazzo mette nel gioco. Basta cori da cappella e scoutismo, il giovane Payton si forma come ottimo runningback e contribuisce a portare la sua nuova squadra “mista” a un sorprendente 8-2 stagionale venendo eletto come atleta nel Mississippi’s All State team.

Ma in alcune parti del mondo, anche quello civile, un nero è solo un nero, lo è oggi e lo era allora dove, certamente, l’essere di colore negli ex stati confederati d’America, era di per sé una colpa piuttosto grave. Questo, secondo molti, il motivo per cui grandissimi college, non del tutto al passo coi tempi sul piano etico, non lo contattano per giocare con loro. Questo silenzio intorno ad uno dei migliori prospetti dello stato ha dell’assurdo, e Payton decide di seguire le orme del fratello e di giocare per la Jackson State University, nella sua terra natale, il Mississippi.
Giocare coi Tigers lo penalizzerà nella corsa all’ Heisman Trophy , dove giungerà solo quarto al suo ultimo anno, vittima di una Università per soli neri, forse troppo piccola, certamente senza grande visibilità. Ma quello che fa sul campo è devastante e gli apre le porte al professionismo; Walter Payton corre per i Tigers 3563 yards (6.1 di media) e segna il record NCAA per touchdown segnati su corsa (65). JSU non ha una squadra fenomenale anche se conta un paio di futuri atleti Nfl (tra cui Robert Brazile, linebacker che gli Oilers sceglieranno nello stesso draft di Walter) ma Payton trova in ogni occasione il modo per essere l’arma in più che può battere qualsiasi difesa. Il suo nome ora non gira più solo tra le aule della Jefferson HS, né solo tra i corridoi della Jackson State o tra le paludi del Mississippi: il nome di Walter Payton rimbalza tra una costa e l’altra del paese, finisce sui taccuini di decine di scouts e nelle liste di tutte le franchigie Nfl.

Draft
1975: “on the clock” per la prima assoluta ci sono gli Atlanta Falcons che portano a casa il quarterback Steve Bartkowski dalla University of California, al quale fanno seguito Randy White (DT ai Cowboys) e Ken Huff (guardia selezionata dai Baltimore Colts). Poi tocca ai Bears, reduci dal 4-10 nel 1974 e che dal 1968 non riescono a far quadrare il conto vittorie-sconfitte almeno con esito di parità, passando addirittura dal 1-13 del 1969, peggior record nella storia della squadra. Un disastro, ma una tendenza che Walter Payton, la scelta di Chicago in quel draft, non riesce a cambiare da subito trovando non poche difficoltà nel suo anno di esordio, una stagione condita da un buon numero di presenze in campo e una media per portata ferma a sole 3.5 yards. I Bears chiuderanno di nuovo a 4-10, e il tackle Dennis Lick sarà la prima scelta del 1976, mentre tutti cominciano a sospettare che l’erede di Gale Sayers non possa essere questo fantastico atleta che si è scelto la casacca numero 34.

Invece tutto cambia. Payton diventa titolare inamovibile del backfield dei Bears e, soprattutto, mette in campo quei numeri che aveva utilizzato per esaltare le tribune di campi semisconosciuti nelle scuole del Mississippi. Payton ha un uso delle gambe favoloso, alle volte sembra quasi danzare sulle punte mentre passa in mezzo a nugoli di avversari spiazzati da tale agilità, avanza a testa alta evitando contatti su contatti, aggirando i difensori, sfruttando velocità e una portata di palla decisamente sicura. E non si ferma qui: Payton riceve, gioco sul quale il coaching staff si deciderà a lavorare in futuro per sviluppare a dovere l’arma totale, così come per i lanci, gioco nel quale Payton verrà impegnato in situazioni speciali.
Il runningback dei Bears chiuderà a quota 1390, numeri che gli permetteranno di iniziare un striscia di cinque anni come leader su corsa della NFC e di volare al primo Pro Bowl. La storia comincia a scriversi, con Chicago che porta il record al 50% di vittorie dopo sette stagioni di buio. L’America si addormenta con gli Oakland Raiders che diventano campioni del mondo e si risveglierà, un anno più tardi, con Chicago a 9-5, in postseason dopo una marea di tempo sprecato a inseguire inutilmente gli avversari e, soprattutto, con Walter Payton a 1852 yards, record di allora per yards corse in una singola stagione, il titolo di miglior giocatore offensivo della Lega e quello di MVP, il primo per i Bears dopo quello di Sid Luckman nel 1943 e, finora, l’ultimo.

Di pari passo con una carriera che decolla ogni anno di più, avanza la storia di un uomo eccezionale, vicino alle cause dei bisognosi, corretto nella vita come sul campo, con amici e sconosciuti, tanto quanto con avversari e compagni di squadra. Un uomo d’oro, un giocatore eccezionale reso celebre dal suo stile inconfondibile e da un’intelligenza di gioco invidiabile, capace di saltare avversari su avversari, ma anche di gettarsi nel mucchio se necessario, o di volare sopra la mischia palla in mano. Un fenomeno assoluto accompagnato da una squadra che fatica a crescere, fin quando, nel 1982, un certo Mike Ditka, ex tight end di Chicago e campione del mondo coi Dallas Cowboys, viene chiamato alla guida del team dell’Illinois. Da Coach non ci mette molto a mettere ogni tassello al posto giusto, a portare a casa talenti indiscutibili e a costruire, assieme a Buddy Ryan, una difesa strepitosa. Le azioni di Chicago cominciano a crescere fino a quando, nel 1985, la squadra esplode in una stagione devastante, un campionato che ancora oggi viene ricordato come il più dominato da una singola squadra, un team che sorprende persino più dei Miami Dolphins della “perfect season” e che viene semplicemente ricordato come i Chicago Bears del 1985. Un marchio di fabbrica.

In quella stagione Walter Payton corre 1551 yards, segna 9 touchdown ed è servito via aerea per 49 volte, leader della squadra. Dopo un 15-1 stagionale i Bears avanzano ai playoffs spazzando via NY Giants (21-0) e LA Rams (24-0) per finire a giocarsi il Super Bowl XX a New Orleans. Walter Payton giocherà male e farà la spese di una scriteriata scelta di Mike Ditka, ossia quella di far correre in una situazione di corto yardaggio nei pressi della endzone William “Refrigerator” Perry invece di Sweetness, idolo incontrastato del pubblico chicagoano che più di chiunque meritava di segnare in quella partita. I Bears spazzeranno via anche i sorprendenti New England Patriots in quello che, per molti anni, è stato il Super Bowl più scontato di sempre, quello con il risultato più nettamente in favore di una delle due contendenti. Il 46-10 finale non lascia spazio a discussioni, soprattutto considerando che l’unica meta dei Pats arriva quando i Bears hanno già preso il largo da un pezzo.

Payton corona il suo sogno di sportivo, diventa campione e gioca con i gradi di vincitore la sua ultima stagione da titolare, quella del 1986, coprendo 1333 yards. A fine stagione annuncerà che il 1987 sarà il suo ultimo campionato e così avverrà; nella sua tredicesima stagione lascerà sempre più spazio al suo successore, Neil Anderson, e porterà palla solo 146 volte, chiudendo il campionato a 533 yards (3.7 di media) e 4 mete su corsa. Perderà con Washington la sua ultima partita di playoffs in carriera, dopodiché, il football, dirà addio a uno dei più grandi di sempre.

Nove volte pro bowler, Walter Payton lascerà la Nfl con il record di yards corse in carriera (16726, attualmente superato solo da Emmitt Smith), eletto sette volte All-Pro e All-Nfc e per altrettante volte tra i primi tre della lega come numero di yards conquistate. Il suo anno di grazia è certamente il 1977, quello in cui batte il record di Jim Brown, altra leggenda del football, per numero di yards corse in stagione e dove finisce primo in tutte le categorie più importanti aggiudicandosi il titolo di MVP: palle portare, yards corse, TD su corsa, yards dallo scrimmage, TD totali tra corse e ricezioni. Chiudendo a 110 yards su corsa (125 totali), Payton è tuttora al terzo posto di sempre nelle mete su corsa, oltre che nelle yards guadagnate dallo scrimmage.

Payton morirà nel novembre 1999 a soli 45 anni per un cancro al fegato; a ricordarlo, come uomo, la sua fondazione intitolata a lui e alla moglie Connie, la Walter and Connie Payton Foundation, che si batte per aiutare i malati di cancro e favorire il trapianto di organi oltre a regalare, ogni Natale, migliaia di giochi a tutti i bambini bisognosi dell’area di Chicago. Con Connie Walter ebbe due figli, uno dei quali, Jarrett, è oggi runningback nella Canadian Football League dopo una breve esperienza ai Tennessee Titans che lo scelsero a seguito dell’esperienza all’università di Miami.

A ricordarlo, come atleta, tutti i grandi runningback venuti dopo di lui e che nelle sue gesta hanno ammesso di aver trovato ispirazione, da Emmitt Smith a LaDainian Tomlinson, passando per Ahman Green che ammise di riguardarsi il film “Pure Payton” prima di ogni gara dei Packers. E la Hall of Fame, ovviamente, che al primo anno di eleggibilità, nel 1993, lo accolse nella propria dimora a Canton, dove riposano tutte le leggende del football; e tutti gli appassionati, senza eccezione. La prima gara al Soldier Field di Chicago dopo la sua morte, fu ovviamente un momento ricco di cerimonie, di ricordi e di commozione. Tra i tanti striscioni il più semplice, come spesso accade, era anche il più diretto, quello che meglio riassumeva lo stato d’animo di ogni tifoso. Recitava: Thank you and goodbye Sweetness, grazie e addio. Semplice, vero.

Grazie Walter.

Legends | by Alessandro Santini | 04/06/07

blog comments powered by Disqus